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Psicotivu – John Kramer

Il signor John Kramer sostiene di essere malato, molto malato. Non è la prima volta che mi capita di affrontare una seduta di sostegno con un paziente malato di cancro. Il suo male dal colon è arrivato fino al cervello: ci si chiede come faccia a stare in piedi.

Sostiene con una calma innaturale, con voce pacata e con occhi leggeri, di essere ormai giunto allo stadio terminale, di essere alla fine, e di avere molte cose chiare in testa.

Sta facendo tutto da solo, non è uno di quei le parole dei quali vanno estratte con la forza. E’ una persona gradevole ed educata. Mi dispiace sinceramente della sorte che gli è toccata. Mentre lo ascolto sento alcune cose che ho sentito da molte altre persone in difficoltà: la moglie se ‘è andata, così come se n’è andato il lavoro.


Arrivati a un certo punto della seduta, comincio a chiedermi perchè sia venuto da me. Sembra aver accettato ormai da tempo la propria morte, sembra aver elaborato tutti i lutti, in fila, uno per uno, con calma e metodo.

Gli chiedo cosa sente in questo momento, cosa lo affligge. Mi dice che lo affligge il tempo. Il tempo è un’illusione, ma è un’illusione che aiuterà la sua stessa malattia a divorarlo prima che lui abbia portato a termine i suoi piani.

Mi chiedo a cosa stia facendo riferimento. Di che piani parla? Forse deve sistemare la situazione di qualche figlio? No. Niente figli, purtroppo. Uno c’era, mi dice, ma è andato via prima di poter arrivare.

Sento un brivido ripensando al “piano” da lui citato, e non mi spiego perchè. Sento che se avesse ancora dentro di sè quel briciolo di umanità che auspico per chiunque, quel “minimo sindacale”, parlando del figlio perduto potrebbe addirittura commuoversi, potrebbe perfino lasciar andare qualche lacrima.

Ma questo non succede. Lui non sta morendo, lui è effettivamente morto, e diverso tempo fa. E’ morto, e dalle sue ceneri è rinato un qualcosa di diverso, come una fenice malata, un alter ego sbagliato. Ha un piano, e la sua sofferenza si è tramutata in bisogno di giudicare senza limiti. Definirla “rabbia” ne renderebbe grossolana la finezza.

Ha rinunciato a tutto perchè ha scoperto, dice, il valore di quello che possiede. Rifletto un attimo per comprendere di cosa sta parlando. Una sorta di serena accettazione? No, niente del genere. Non è un sentimento passivo, lui è attivo e ha voglia di fare, ma cosa?

Nella forza con cui pronuncia le sue parole, pur mantenendo un tono di voce da conferenza di archeo-linguistica, percepisco la furia, percepisco la fredda pianificazione. Il suo viso si accende, il pallore del suo volto allungato sembra diventare iridescente di fede e di progettualità.

Il suo viso diventa vitale, diventa realmente bello, e rimango affascinato dalla sua lunga invettiva sulle persone. La gente, dice, non riesce a comprendere cosa ha realmente fra le mani, non riesce ad apprezzare quello che ha.

Io lo ascolto rapito, e mi rendo conto che mi sta raccontando fatti di persone che conosce. A dire il vero, dà più l’impressione di averle osservate molto attentamente. Sento l’inquietudine crescere dentro di me, e sento il bisogno di rammentare a me stesso che sono di fronte a un povero malato di cancro allo stadio terminale.

Mi dice che l’enigma è la chiave di tutto: la vita è un enigma, e l’enigma è in grado di spingere le persone a fare realmente qualcosa. Dice che ha bisogno di qualcuno a cui trasmettere quei valori, e che quel qualcuno dovrà superare delle prove.

Non so se sentirmi in apprensione per il succitato, contorto progetto, o se sperare di essere chiamato in causa. La sua missione sembra comunque volta al miglioramento, e questo è encomiabile; del resto cosa mai potrebbe fare di male uno nelle sue condizioni?

Alla fine mi rendo conto che mi ha affascinato, e che sono pienamente d’accordo con lui quasi su tutto. Non è stata una seduta, sembra piuttosto una lezione privata sulla vita, sul suo valore, e su come tendiamo a mandare in malora ogni cosa.

Nella sua persona sono assenti tracce di “banale” megalomania. Il suo “Io” ha ucciso il “Super-Io”, e sta domando e sfruttando l’Es, razionalizzandone la furia e il potere. Sembrerebbe una sorta di effetto non convenzionale di un Disturbo Post Traumatico da Stress, ma legato non tanto all’incidente automobilistico che dice di aver subito, quanto alla comprensione e alla capacità di comprendere che ne sono scaturite.

Lo accompagno alla porta e ho voglia di abbracciarlo, ma mi limito a salutarlo molto cordialmente. Chiudo la porta e mi rendo conto che sulla mia srivania c’è un piccolo registratore portatile. Premo il pulsante “play”.

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