Il paziente ha la pelle color giallo acceso, quasi monocromatico; e dire che ne ho viste tante, ma mai come questa. Comincio a farmi un’idea di una eventuale patologia organica, nel frattempo lo faccio accomodare. Ha una curiosa aria da “assenza di pensiero”, tipo post-lobotomia.
Ci guardiamo fissi negli occhi per pochi secondi che sembrano eterni, poi mi accingo a prendere una penna in un cassetto della mia scrivania mentre gli spiego che mi occupo di psicoterapia, e lui si ritira spaventato, come se lo avessi minacciato. Mi dice che ha paura che tiri fuori la “psicoterapia”, e che con la stessa lo percuota.
Lo tranquillizzo, gli spiego che non è un’arma, e mi sento un pò confuso, come timoroso di ricevere per contagio parte della confusione mentale del mio paziente.
Continua a guardarmi interrogativo, gli occhi due sfere bianche, enormi, fisse, pupilla piccola, e nonostante le dimensioni piuttosto inespressivi, poco comunicativi; ho visto persone avere quello sguardo dopo aver assunto dosi massicce di sedativi.
E’ vestito con la tipica “divisa” da impiegato, una composta da un paio di pantaloni normalissimi e una camicia a maniche corte. Credo che la camicia sia macchiata di salsa. Per un attimo ho una stranissima allucinazione: sembra che il tizio sia circondato da una sorta di radiazione verde luminescente. Devo essere stanco.
Lo faccio sedere su una delle poltrone dello studio, e guardandosi intorno incuriosito mi chiede se può avere un dolcetto. Solo i pazienti bambini fanno richieste di questo tipo, ma io ci passo sopra e ricordo di avere nella tasca della giacca una confezione di mentine.
Gli porgo la confezione, si tratta di mentine del diametro di un nanometro, e lui mi strappa la confezione di mano, e gira indietro la testa, apre una bocca di dimensioni titaniche e vi svuota dentro l’intero contenuto.
Il tizio mi intimorisce, ma sono un professionista, e vado avanti. Mi auto-obbligo a non guardare troppo la sua spaziosissima fronte, che dopo una parabola rocambolesca su un cranio semi deserto va a sbattere contro la nuca. Guardando la sua micro pupilla incastonata in quella palla da golf del suo bulbo oculare ho come l’impressione di sentir soffiare un vento di assenza.
Devo arrivare al dunque, è l’ultimo paziente, sono in chiusura, voglio finire la mia giornata e tornare a casa. Gli chiedo quindi la ragione che lo ha spinto da me, lui mi chiede di cosa sto parlando; si tratta di un caso difficilissimo, oppure di una candid. Insisto, gli chiedo come mai si trova nel mio studio, e lui si gira indietro, convinto che io non mi stia rivolgendo a lui ma a qualcun altro dietro di lui.
Con calma gli spiego che dovrebbe dirmi il motivo della sua visita, e lui si illumina per un attimo, mi dice che ha un problema, si getta a terra e scoppia a piangere istericamente, agitando le braccia e scuotendo la testa, abbracciandomi le ginocchia.
Comincio a sentirmi decisamente imbarazzato, gli porgo un fazzoletto e lui si soffia il naso rumorosamente, continuando a urlare con tono lamentoso, invocando il mio nome e pregando di aiutarlo.
Dice di chiamarsi Homer J. Simpson. Lavora alla centrale nucleare (ecco spiegata la strana luminescenza!). Dice che sta affrontando un lutto, un lutto che lo sta distruggendo. Penso al peggio, gli dico di andare avanti. Per il momento mi hanno colpito alcuni aspetti ambigui, che non esita a manifestare. Completamente privo di tracce evidenti di Super-Io, fa esattamente quello che gli viene spontaneo di fare, ma la sua espressione perennemente sgomenta denuncia il fatto che sembra non riuscire a seguire la logica caotica del suo stesso ragionare folle.
Ultimamente mi sono appassionato a un approccio che porta il terapeuta a cercare di inquadrare il paziente e la relativa patologia secondo l’incrocio di due dimensioni, quella sincrona, relativa all’ “hic et nunc”, e quella diacrona, relativa ai momenti della storia passata, andando a ricostruire la cosiddetta “Storia del Caso”; per questo spingo il signor Simpson a raccontare tutto dall’inizio.
Mi racconta una storia curiosa, dice con tono triste e solenne di aver perso il suo migliore amico. Mi sento vicino a lui, si accende il motore dell’empatia. Proseguiamo, e già qualcosa mi perplime. Il miglior amico perduto è un’aragosta, esatto, un aragosta, un crostaceo, gustosissimo, tra l’altro.
Racconta di aver conosciuto l’aragosta su un banco del pesce, al mercato; riferisce che l’esserino l’ha guardato con i suoi grandi dolci occhioni – fatico a immaginarlo – e lui non ha resistito, l’ha comprata subito, e l’ha abbracciata forte. Sento una sincera tenerezza trasparire dalle sue parole, anche se il livello di delirio non accenna a diminuire.
Sostiene anche che il piccolo crostaceo faceva le fusa, ed io ascolto scendendo uno ad uno gli scalini che portano alla tenebra della follia. Gli si illuminano gli occhi in modo schietto quando parla del suo piccolo amico, dal canto mio contagiato dalla sua pazzia gli chiedo se l’aragosta era un maschio o una femmina. Non è importante, lo dico a me stesso e andiamo avanti. Sono uno psicologo e lui vuole il mio aiuto. Io glie lo darò e poi tutti a casa.
Prosegue raccontandomi dei dolci momenti passati insieme al suo amico, in situazioni grottesche che culminano col gioco del lancio del bastone, e col crostaceo che va a riprenderlo.
Passeggiate sul lungomare verso l’orizzonte, abbracci che trasudano amore e amicizia. Addirittura il figlio – tale Bart – è stato sbattuto a dormire nella casa sull’albero, e la sua camera è diventata una casa gigantesca per l’aragosta.
Voglio concludere. Non sa dirmi con precisione quanti figli ha, dato che non sa se inserire nel conto la piccola Maggie, poichè è troppo giovane. Quindi quest’uomo, nella sua totale e folle ingenuità ha trovato una santa che l’ha sposato e che gli ha dato una prole, è roba da non credere, ma anche a me,nonostante tutto, il vecchio Homer fa un effetto gradevole.
Ribadisco, voglio concludere, e gli chiedo che fine ha fatto l’amico. Lui ricomincia a piangere, infila la mano in tasca e la estrae velocemente, ha in mano qualcosa. Una chela. Si tratta di una chela, che lui comincia a sgranocchiare, senza smettere di piangere, dicendo che il suo amico gli manca tanto, che è tanto buono.
Non fatico ad immaginare la provenienza di quel reperto. Mi sento un pò fuori fase, mi sento sdoppiare, come se il mio paziente fosse riuscito in qualche modo a trasmettermi la sua patologica ambivalenza, il suo stato di dissociazione.
Penso sia meglio andare a casa, ma poi mi faccio convincere e accetto di andare a prendere una birra da Boe.
Grande Homer, l’uomo più vero della televisione…ma psicoanalizzare il cinico Stewie dei Griffin, no?
Ho sempre cercato si capire i Simpson nella loro vera essenza, non soffermandomi alle macro scenettine che in realtà non vogliono descrivere solo quello che poi lo spettatore non americano percepisce. Avverto che l’umorismo che si cela dietro ogni sketch voglia comunicare qualcosa di più alto valore ma non sempre riesco a cogliere cosa; forse il mio cervello è più piccolo di quello di Homer, chissà…. 😀
Favolosa questa sezione del sito, divertentissima! Con questa recensione ci si potrebbe scrivere tranquillamente una puntata.
Alla prossima…