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Recensione: Mongol

Temugin (Tadanobu Asano), noto a tutti come il temutissimo e crudele condottiero mongolo Genghis Khan, nato nel 1162, prima di diventare l’uomo che è passato alla storia, ha avuto una vita travagliata: il padre viene ammazzato con del veleno quando è ancora piccolo (interpretato da Odnyam Odsuren), proprio dopo che lui ha scelto Borte (Khulan Chuluun) come sua futura sposa; una delle tribù mongole gli rapisce la futura moglie e lui deve entrare in guerra per riprendersela; il fratello Jamulka (Honglei Sun) diventa da alleato a nemico, a causa della sua sete di potere (non accetta che alcuni dei suoi uomini gli preferiscano Temugin); i cinesi lo catturano e lo fanno diventare schiavo. In tutti questi casi rischia sempre di morire, ma il fato lo grazia sempre.
La narrazione degli eventi, fatta di salti temporali rilevanti atti a raccontare un ampio periodo che va dal 1162 al 1206 (anno della battaglia che riunisce sotto un unico uomo tutte le tribù mongole) in due ore, consegna allo spettatore un personaggio ben diverso dal sanguinario Kahn (condottiero) che tutti noi conosciamo, ovvero un leader, che ha agito in ogni occasione nel modo migliore possibile.
Mongol vincitore di 9 premi internazionali e nominato agli oscar come miglior film straniero, diretto dal regista russo premio oscar Sergei Bodrov, è uno splendido affresco, girato nei veri luoghi in cui si svolsero gli avvenimenti narrati, di un’epopea che noi occidentali conosciamo poco, una storia un po’ Braveheart (similitudini con il Wallace bambino), un po’ Il gladiatore (entrambi i protagonisti prima di arrivare all’apice vivono per un periodo in schiavitù).


Gli aspetti più convincenti del film sono senza dubbio una fotografia spettacolare e le scelte di ripresa che alternano a campi lunghissimi che descrivono alla perfezione il desertico paesaggio mongolo, primi piani di piedi che camminano faticosamente, e dettagli, mai troppo insistiti, delle cruenti battaglie corpo a corpo, che esaltano le doti di guerriero di Temugin, senza dilungarsi troppo (un colpo e via) sulla violenza dell’atto.
Un altro pregio e da me inaspettato, è la bella caratterizzazione dei personaggi: oltre al protagonista di cui vengono descritte magnanimità, caparbietà, grande intelligenza e coraggio, anche i personaggi che lo circondano non sono semplicemente abbozzati, ma quasi dipinti attraverso poche caratteristiche peculiari come la grande energia e la fede di Borte o l’ambizione di Jamulka.
Unico vero neo del film, che poteva risultare lento e noioso, ma che al contrario riesce ad intrattenere grazie all’alternanza di dialoghi essenziali (mai inutili), con scene d’azione, credo sia da riscontrare nella mancanza di esaustività: il periodo raccontato è talmente ricco di avvenimenti, che non c’è modo per dedicarsi alla creazione di atmosfere dal grande pathos e non c’è tempo per approfondire gli eventi storici dell’epoca, che, se non vedono Gengis Kahn protagonista, rimangono in secondo piano (vedi impero cinese) o non vengono narrati.
Concludendo: Mongol affascina perché affascinano Gengis Kahn, le ambientazioni e i combattimenti, sempre impari, che il nostro eroe deve affrontare lungo il suo cammino. La candidatura all’Oscar appare più che meritata. Peccato che alla fine del film, ci si senta soddisfatti, ma non sazi.
Consigliato agli amanti dei film storici/biografici e ai curiosi di storia orientale. Sconsigliato a chi si aspetta grandi battaglie con sangue che scorre a fiumi.

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