Eccoci giunti al nostro appuntamento settimanale con i cartoni che hanno fatto la storia, e oggi abbiamo un ospite d’eccezione: il mitico Ken il Guerriero, l’ultimo discendente della scuola di Hokuto, che tanto ha contribuito ha influito sul mondo dei manga e degli anime, per non parlare del nostro stesso modo di vedere e concepire i cartoni animati.
Ken il guerriero nasce in Giappone come manga nel 1983, pubblicato su Shōnen Jump della Shūeisha, in 27 volumi per opera di Tetsuo Hara e Yoshiyuki Okamura; quest’ultimo, geniale sceneggiatore, è colui che si nasconde dietro lo pseudonimo “Buronson”, traslitterazione di Bronson per Charles Bronson.
Ken viene tuttavia conosciuto in Italia grazie al cartone, che qui da noi esce prima del manga, e che è composto da due serie rispettivamente di 109 e 43 episodi, prodotta da Toei Doga e Fuji Television. Me la ricordo ancora, la prima volta che vidi Ken il Guerriero in azione, seduto sulla poltrona di mia nonna, prima che i miei genitori tornassero tardissimo da lavoro e venissero a prendermi per portare mio fratello e me a casa. Non volevo scollarmi dalla tv.
Ero piccolo e avevo appena visto una puntata di qualcosa che doveva essere tipo Ransie la Strega, e all’improvviso, un cartone dai disegni fantastici, in cui si faceva a botte, ma non esattamente alla Bud Spencer & Terence Hill.
L’Uomo dalle Sette stelle – così Ken viene chiamato a causa delle sette cicatrici inflitte sul suo corpo da Shin fa letteralmente esplodere i suoi nemici, toccando particolari punti, detti “tsubo”, e tradotti in italiano come “punti di pressione”.
Prima dell’esplosione il corpo si deforma, ogni colpo che Ken infligge sull’avversario ha un nome, una storia, e un suo range di applicabilità: ma da dove arriva tutta questa furia?
La storia trae le sue origini da un olocausto nucleare, scatenato da un conflitto mondiale. Il mondo ricorda da vicino quello di Mad Max, in cui pochi sopravvissuti ridotti a vivere in piccoli gruppi e a centellinare acqua e cibo, sono costretti a respingere gli attacchi di spietate bande di predoni.
Kenshiro, il protagonista, è il 64° successore della scuola di arti marziali “Divina Scuola di Hokuto”, l’Hokuto Shinken. Ken si muove con calma in questo mondo, protetto dall’essere il depositario di una conoscenza micidiale e preziosissima, arma in grado di devastare il corpo di un uomo, o dote in grado di restituire la salute e la vita (la specialita di Toki, uno dei fratelli di Ken).
Inizialmente l’arrogante Shin rapisce Julia, la ragazza di Ken, e la prima parte della storia consiste proprio nel percorso che Ken intraprende alla ricerca di questa. Successivamente il ruolo di Ken assurge a quello di salvatore, e le avventure/disavventure lo porteranno lontanissimo dai suoi goal iniziali.
Si tratta di un cartone molto profondo, e per certi versi adult-oriented. Ken è un personaggio crepuscolare, macchina da giustizia guidata da un profondo senso di disciplina, dignità e forza.
Sulla sua strada si trova a combattere contro avversari resi enormi dall’olocausto, alle volte dei veri e propri mostri dalle capacità di combattimento e dalle tecniche più disparate. Ken ha una risposta per tutti, combatte fino in fondo le sue guerre, difendendo i deboli e vendicandoli quando questo è necessario.
Si potrebbe parlare per ore di Ken il Guerriero. Molti degli stereotipi dei manga sono reperibili nella narrazione: l’olocausto nucleare, le arti marziali, il senso del sacrificio, la tristezza, il dolore, sentimenti come l’amicizia e l’amore.
Si tratta di un cartone di grande spessore, e non posso non citare la profondità degli altri personaggi, tutti dotati di fine caratterizzazione psicologica: il perfido e arrogante Shin, il colossale Raul, il buon Fudo della Montagna. E ancora Julia, l’amore sfuggente e etereo, e Mamya, la donna associata a un amore più terreno.
Sono tutti lottatori, sono tutte lottatrici. Ci sono tante scuole di arti marziali diverse, tante avventure avvincenti e completamente spogliate di buonismo, ma rivestite di quegli ideali che si ritrovano solo in ciò che è antico, nel bushido dei samurai, ma anche nei “nostri” poemi omerici, che emrgono nell’umanità antica come stereotipi dell’inconscio collettivo.