Alla fine della sua settima legislatura per Giulio Andreotti (Toni Servillo), il politico italiano per eccellenza, c’è odore di Presidenza della Repubblica, ma così non è: per lui che già c’era quando è stata scritta la costituzione, per lui che ha guidato il partito più rappresentativo del Paese, la Democrazia Cristiana, per lui ad attenderlo c’è la resa dei conti con la giustizia, che lo processa per collusione con la mafia.
Paolo Sorrentino, ne Il divo, vincitore al sessantunesimo Festiva di Cannes del Premio della giuria, racconta la vita pubblica e privata del senatore Giulio Andreotti (e quindi gran parte della storia politica italiana), fatte di difficili decisioni, che l’hanno reso il personaggio più controverso della storia della Repubblica.
Il divo, uno dei nomi affibbiati ad Andreotti oltre a la Sfinge, il Gobbo, La Volpe, il Papa nero, Belzebù, un uomo ironico, descritto in tutta la sua regalità (le persone che lo circondano come se fossero parte della sua corte, la centralità della sua immagine in tutte le scene del film), è una persona che non ha paura di oltrepassare la sottile linea che separa il bene dal male, la cosa giusta da quella sbagliata.
A livello stilistico Sorrentino marchia a fuoco la pellicola attraverso scelte nette e personali: un inizio e una fine istruttivi, con alcune didascalie spiegano l’Abc della politica italiana; scene grottesche (Andreotti con mille aghi in faccia che cerca di curarsi l’emicrania), che sottolineano il potere del protagonista; titoli rosso sangue che indicano il nome e il cognome dei differenti personaggi del panorama politico, economico e criminale, rappresentati nelle diverse scene; una carrellata sulla serie di morti ammazzati (o suicidi) e sovraimpressioni fotografiche si alternano o integrano la narrazione audio dei fatti degli anni descritti; ripetuti stacchi sul primissimo piano di Andreotti, quasi nel tentativo di riuscire a carpirne le emozioni; le scelte scenografiche che reggono il ruolo contraddittorio di divo e uomo solitario designato al protagonista del film (una sedia in centro ad una sala enorme come se fosse il trono di un re; il tendaggio della finestra che circonda ai lati Andreotti, come se fosse sul palco di un teatro).
Una menzione speciale va al vero divo del film, Toni Servillo, attore da Oscar (gustatevi il monologo confessione indirizzato alla moglie Livia, interpretata da Anna Bonaiuto, dopo la canzone I migliori anni di Renato Zero, sullo stretto rapporto tra bene e male e ditemi se sto esagerando), in grado di creare una grande tensione drammatica solo con la modulazione della sua voce e capace di reggere un ruolo così complesso e sfaccettato come quello di Andreotti, svariando dal grottesco al cinico, intrattenendo discorsi di fondamentale importanza come quelli più futili, risultando estremamente credibile e mai ridicolo.
Concludendo: Il divo è perfetto così com’è, con le sue musiche a spezzare i momenti di stanca, il suo montaggio ricercato e l’interpretazione valida che rende giustizia alla sceneggiatura esauriente e meticolosa scritta da Sorrentino con la consulenza del giornalista Giuseppe D’Avanzo.
Se in un film non vi spaventa la lentezza narrativa e volete confrontarvi con la realtà politica italiana e la storia di uno degli uomini che l’ha creata, non dovete perdere l’occasione di vederlo.
Servillo è un attore da Oscar, il film è solo una pubblicità gratutita su Andreotti. Non condanno il Film, fatto benissimo, ma il dare così tanta importanza ud un essere così subdolo, un uomo che se ne fotte delle critiche nei propri confronti, una persona spregievole, più si parla di lui più cresce la sua influenza, positiva o negativa che sia.